domenica 26 giugno 2011

Gustave Moreau

La luce s’indora irradiandosi nel buio, illuminando ornamenti , decorazioni, architetture e vesti di broccato, rivelando leggende e miti, aprendosi su visioni di sensualità e sogni mistici, con i bagliori delle pietre preziose, degli smalti luminescenti e il buio delle ombre che inevitabilmente la luce disegna. In un segno grafico affascinante e sontuoso, impianti scenografici di complesse commistioni di stili ed epoche, ma dal tratto preciso e dai colori tanto splendenti da accecare l’immagine stessa. Moreau crea in scenografie senza tempo d’altri mondi, le atmosfere ideali per realizzare l’immaginario profondo che si cela nella psiche e che sa credere e inventare miti e leggende, tra angeli e demoni, tra divinità e androgine creature, tra eroine pericolose ed eroi dalla dolcezza di fanciulle, amore e morte, desiderio e delitto, in una libertà stilistica ed espressiva che rivoluziona la concezione positivista e il credo naturalistico della razionale borghesia di fine ottocento. La fantasia dell’inconscio, ancora da decifrare, germoglia e simbolisti,decadentisti, surrealisti, ed espressionisti la coglieranno come un fiore malsano da trapiantare. Per Proust egli ha spesso tentato di dipingere "questa astrazione: il poeta". La libertà come credo, tutto permette in arte, raschiature, sovrapposizioni, velature, anche il non finito come sublimazione dell’idea creatrice, rendendo ancora più intriganti i suoi dipinti con quei spazi da colmare con la propria immaginazione. Orfeo decollato, Jupiter, Semele, Leda, La Sfinge, Andromeda, Galatea, l’Unicorno ci portano in inquietanti miraggi, apparizioni tra “ fiori intrecciati a preziosi gioielli..." ( Proust). L’ambiguità delle sue visioni ci irretisce portando a galla i nostri segreti desideri trasformati in mito per parlare al nostro io profondo senza spaventarlo, ma rivelando l’incubo in cui giacciamo. Come Salomè, nuda la nostra anima senza più veli, si veste di gioielli e trine, si annida in lussuosi palazzi lumeggiati in decori che non riescono a confondere l’orrore del nostro inconfessabile segreto, come lei puntiamo il dito verso quella terribile allucinazione, quella testa ancora gocciolante di sangue: e come lei non possiamo non guardarla con terrore e voluttà.
Gustave Moreau « Credo solo a ciò che non vedo e unicamente a quello che sento. »
Proust " Moreau ... l'uomo che dipingeva i suoi sogni..."

domenica 19 giugno 2011

Les enfants du Paradis

1840 al Boulevard du Crime, c'è il teatro popolare Les Funambules e tra i numeri in scena vi è il mimo Baptiste vestito da Pierrot che incanta i giovani spettatori nel loggione, il Paradiso, con il suo temperamento romantico e sognatore. In uno spettacolo diurno in strada con una pantomima che mima la scena accaduta sotto i suoi occhi salva dal carcere la bella Garance, che gettandogli una rosa, lo incatena in un amore impossibile, troppo realista e libera lei, troppo spirituale la bruciante passione di lui. E mentre Baptiste allontana da se la fedele innamorata Nathalie, la volubile Garance che prima lo ha preferito al bandito dandy Lacenaire, subito lo tradisce prima con il suo collega Frédérick e per poi fuggire con un ricco Conte. Anni dopo Frédérick è diventato un attore tragico famoso e il mimo furoreggia con l'originalità della sua arte, ha sposato Nathalie e hanno un figlio, ma quando viene a sapere che Garance è tornata e che ogni sera viene a vedere il suo spettacolo, entra in crisi, la ritrova e passa in estasi la notte con lei, ma al mattino il sopraggiungere della moglie rompe l'idillio, Garance fugge ancora e lui la perde nella folla parigina in delirio per il carnevale. Un grande film sul fato, la passione ove ogni personaggio insegue l'amore e un ideale irraggiungibile, e si muove in bilico fra vita e arte, senza confini netti, come tra il dramma sanguigno della tragedia che ha in se il ridicolo, o la comica pantomima che può toccare il cuore fino alle lacrime con la delicatezza della sua mimica. Un atmosfera suggestiva ci trasporta in una Parigi di bistrot, alberghetti, saltimbanchi, apaches e poeti. Ma tutti inseguono qualcosa d'inarrivabile, lo sfiorano forse un momento , ma la realtà si riappropria di tutto, quella cruda realtà, riassunta negli sguardi amorosi, speranzosi, imploranti e disperatamente coscienti di Nathalie, legata al proprio amore, al proprio dolore senza resistergli. Un film cosi' non può che avere per ispirazione la frase d'inizio tratta da Shakespeare : «Il mondo è un palcoscenico in cui uomini e donne sono gli attori. Essi vi fanno i loro ingressi e le loro uscite.»


Garance al bandito: "Avete in testa troppo fuoco per me, e in cuore del ghiaccio: troppe correnti d'aria..."Io adoro la libertà…… "

Frédérick Lemaître e Baptiste Debureau : "-Eh, sicuro, a te le parole, le frasi ti lasciano freddo e tu non ne hai bisogno, perché racconti la tua storiella senza parole, e la racconti bene, sai? Non c'è niente da dire, sei un portento: tu parli con le gambe, rispondi con le mani... Uno sguardo, un'alzata di spalle, due passi in avanti, un passo indietro, e op... perfetto, hanno compreso in Paradiso.
-Sì, comprendono tutto, perché sono povera gente, ed io sono come loro. Li amo, li conosco: la loro vita è assai piccina, ma fan sogni splendidi, e non vorrei soltanto farli ridere, vorrei farli sognare, fremere d'emozione e di piacere.
E tutto ciò senza dire loro un sì."

Baptiste a Garance : "- La luna? È lassù, la luna: è il mio paese. Sognare e vivere è lo stesso: se non fosse così, a che varrebbe vivere? E cosa volete che mi interessi la vita? Non è la vita che amo, ma voi." e Garance : " -Non me ne dovete volere, ma infine non sono affatto come volete voi. Bisogna comprendermi, sono semplice, tanto semplice: io sono così, amo piacere a chi mi piace, e quando ho voglia di dire sì non so dire di no. E' talmente semplice l'amore"

domenica 12 giugno 2011

AMARCORD

Anni trenta siamo a Rimini, e seguendo da una primavera all’altra l’adolescenza di Titta entriamo nel mondo di ricordi dell’adulto che sarà, dove ricordi reali e fantasia nostalgica si mescolano senza continuità, filtrati dall’evanescenza del tempo e dalla malinconia di ciò che perduto per sempre, non importa che la verità è sempre meno bella, che vige una dittatura, che in famiglia è un continuo litigare, che ci siano ipocrisia, provincialismo, bigotteria e follia, il ricordo toglie amarezza e lascia un sapore dolceamaro. Solo la malattia e la morte li può cancellare, veri o immaginati sono stati ciò che siamo ora, ecco allora la carrellata di personaggi e scene che popolano la mente dell’autore : la città di mare con la spiaggia, il Grand Hotel, l’inverno freddo e nebbioso, e qui l’aggirarsi dei ragazzi che cercano di crescere tra pulsioni sessuali e un identità lontana da formarsi, sognando le grazie della Gradisca che una sera si è concessa al Principe con quell’invitante frase, vivendo la stanchezza di una madre, subendo l’orgoglio del padre, tra i buffi concittadini come Giudizio il matto del paese, il cieco con la sua fisarmonica, l’avvocato che rivolgendosi a noi pubblico ci narra vicende, il motociclista esibizionista, Volpina la giovane ninfomane, e la giunonica e carnale Tabbaccaia. Commedia e dramma convivono con il trascorrere delle stagioni in cui sembra tutto uguale, ma che trasforma irrimediabilmente le cose : passano le auto da corsa della Mille Miglia, muore sua madre, si sposa Gradisca andando via lontano, passa un’altra primavera, tutto passa, anche l’adolescenza finisce con loro. Eppure per un momento il tempo a volte si ferma, si fa ricordo indelebile, si fa magia come il passaggio in una notte in cui tutta la città aspetta su piccole barche nel buio, la visione del traslatlantico più bello del mondo, il maestoso Rex, un attimo e anche lui scompare per sempre, ma che momento indimenticabile la notte si è squarciata con le mille luci della grande nave, invadendo d’emozioni chi era li ad attendere un sogno. Non sono i nostri ricordi, ma l’arte riesce a farceli sentire parte di noi, come sembra uscire da noi quel grido disperato dello zio matto Teo, che una volta fuori dal manicomio, dalle fronde di un albero su cui si è arbarbicato, a squarciagola ulula “ Voglio una donnaaaaaaaaaaa “. Abisso di solitudine che non risparmia nessuno, e nulla è più reale e senza tempo di quell’invocazione.


Federico Fellini: "Non è la memoria che domina i miei film. Dire che i miei film sono autobiografici è una disinvolta fregnaccia. Io la mia vita me la sono inventata. L’’ho inventata apposta per lo schermo. Prima di girare il primo film non ho fatto altro che prepararmi a diventare alto e grosso abbastanza e a caricarmi di tutta l’’energia necessaria per arrivare un giorno a dire ‘‘azione!’’. Ho vissuto per scoprire e creare un regista: niente altro. E di niente altro ho memoria, pur passando per uno che vive la sua vita espressiva sui grandi magazzini della memoria. Non è vero niente. Nel senso dell’’aneddoto, di autobiografico, nei miei film non c’è nulla. C’è invece la testimonianza di una certa stagione che ho vissuto. In tal senso, allora sì, che i miei film sono autobiografici: ma allo stesso modo in cui ogni libro, ogni verso di poeta, ogni colore messo su tela, è autobiografico".

Gradisca : "È l'inverno che muore, e arriva la primavera. Me la sento già addosso io, la primavera! "

domenica 5 giugno 2011

Il corridoio della paura

Johnny Barrett è un giornalista ambizioso, vuole il premio Pulitzer, è disposto per ottenerlo a farsi rinchiudere in manicomio per risolvere un delitto. Convince la riluttante fidanzata Cathy a fingersi sua sorella, che lo fa internare perchè ossessionato sessualmente da lei. Tre sono i pazienti che possono aver visto, ma è problematico riuscire ad avere informazioni in un loro momento di lucidità. Un scienziato nucleare premio Nobel regredito all’infanzia per difendersi dagli orrori delle sue scoperte, un uomo di colore che si crede uno del Ku Klux Klan, per cià che ha subito per razzismo, un veterano della Corea che convinto a tradire si crede in piena guerra di secessione sudista. A contatto con la pazzia, incomincia a vacillare con la mente, Cathy cerca di disuaderlo dal continuare, ma niente, anche se sempre piu’ diventa pericoloso stare lì, subisce un elettroshock, scopre il colpevole in un infermiere che si approfittava delle malate, scrive un pezzo formidabile, vince il Pulitzer, ma lo ritroviamo in ospedale ormai senza nessuna coscienza di se in un perenne stato catatonico. Fuller poteva farne un dramma dei metodi brutali negli ospedali psichiatrici americani, ma sa andare oltre, la vita è continuo sconto antitetico per lui. In scena vi è la complessa composizione benigna e maligna della mente umana, e soprattutto vi sono gli Stati Uniti e la riflessione suoi suoi mali autolesionistici, i suoi vizi, le sue paure, l’odio e il panico continuo, dalla presunzione di primeggiare ad ogni costo alla violenza di ogni giorno e della politica stessa. Quel corridoio claustrofobico diventa bianca e nera metafora della civiltà. Ci sono scene indimenticabili anche se terribili, la violenta aggressione delle ninfomani a Johnny, l’agghiacciante fissità di quel braccio catatonico, la sovrapposizione d’immagini del sogno che diventa ossessione di lui che incomincia a confondere Cathy da fidanzata ballerina sensuale a invitante sorella, la follia totale del giornalista che non riesce a ricordare il nome dell’assassino mentre dentro vive un temporale vivido che si scatena in quel corridoio, sta annegando la sua sanità mentale in quella tempesta d’acqua immaginaria, ma più vera della realtà. Ha imparato a sue spese che la verità costa sempre un prezzo altissimo, anche la perdita di se stessi, ma non possiamo rinunciarvi. Il film si apre e chiude con la frase di Euripide “Gli dei rendono pazzi coloro che vogliono perdere”