domenica 29 aprile 2012

Il fantasma e la Signora Muir

Inizio ‘900, la giovane vedova Lucy Muir decide  di trasferirsi  sola con la sua bambina,  in una casa sul mare, sfidando le convenzioni e il parere dei parenti, nonché dell’agente immobiliare che le sconsiglia quella determinata villa, visitata da un fantasma. Ma a lei si sente attratta da quel luogo e l’affitto basso fa al suo caso. Lo spettro del burbero Capitano di marina Daniel Greg, precedente proprietario e costruttore del cottage, non tarda a manifestarsi, dapprima per sbarazzarsi di lei, poi affascinato dalla sua tenacia, inizia una starna convivenza fatta di sfide e battute, quotidianità, confidenze,  si costruisce  un rapporto,  di stima e amore platonico.  Una complicità che giunge a coinvolgerli nella stesura di un romanzo avventuroso ispirato alla vita e ai modi rudi stessi del comandante, che la chiama  in una versione solo loro “Lucia”. Il libro viene pubblicato risolvendo i suoi affanni economici, e le fa incontrare anche un uomo che la corteggia, geloso, ma cosciente che lei è viva e deve vivere la sua esistenza, Daniel Greg svanisce lasciandola alla sua vita, convincendola mentre riposa che tutto questo è stato solo un sogno. Ma Mr. Fairley si rivela una delusione e Lucy si ritrova a condurre il resto della vita sola anche se serena, con solo una strana aspettativa di qualcosa di lontano. Soltanto anni dopo, la figlia grande ormai, le confida di aver sognato con affetto da bimba di un Capitano, mai più rivisto, davanti allo sgomento della madre comprende che forse il fantasma era vero e che anche lei lo vedeva, che qualcosa li legava. Lucy sgomenta minimizza la cosa , ma dentro di se ora ricorda che non era un sogno quel periodo così felice, adesso sa perché quella sensazione d’attesa, che si realizza una sera ancora anni dopo, quando anziana si addormenta un ultima volta, e il suo Capitano riappare per prenderla per mano -  "Ora non sarai più stanca, vieni Lucia" e  la porta con se, oltre la porta della loro a casa , oltre la vita, oltre ogni cosa terrena, per sempre insieme. Perfetto l’equilibrio di questo film bizzarro, meraviglioso e struggente di Mankiewicz , riesce a parlarci di una storia d’amore impossibile,  amor fou e soprannaturale, di un fantasma, di una donna emancipata, di un uomo indimenticabile, senza mai cadere in nessuna trappola mielosa o artificiosa, riuscendo a coniugare brillantemente dialoghi da commedia con un romanticismo estremo. Non si può non innamorarsi del musetto incantevole e determinato della Tierney, e non si può non innamorarsi della personalità scontrosa e carismatica di Rex Harrison custode di un sentimento senza tempo:  perché non si può che decidere di aspettarsi tutta la vita di fronte ad un amore così.
Fairley a Lucy : -  “La parola che le serve è bronzo …..  per descrivere la mia faccia “;  e Greg  geloso  di Fairley a Lucia : -“ Bronzo, ha detto? Gliela lucido io quella faccia! E tutte le smorfie che ti faceva, come un gatto a un pescivendolo: dovevi prenderlo a schiaffi. “
Greg bisbiglia sulle labbra a Lucia  prima di svanire : - “Domattina e negli anni che verranno tu mi rammenterai come un sogno che lentamente svanisce    ........   Lucia, che cosa abbiamo perso! Addio, amore.”

domenica 15 aprile 2012

So dove vado

Joan è una giovane determinata ad avere una vita sicura e agiata, in un nightclub annuncia al padre ricco e distratto, che sta andando in Scozia  sull’isola di Killoran per sposare un vecchio miliardario che vi risiede. Il tragitto s’interrompe per il  maltempo e il mare in  burrasca, proprio mentre si trova davanti all'isola. Qui  incontra un  ufficiale di marina in una breve licenza di guerra,  l'affabile Richard Torquil, che l’affascina, e irrita, per la schiettezza e  l’ entusiasmo dei suoi modi . Joan riottosa a desistere, inizia però a conoscere gli abitanti del luogo, personaggi insoliti, rudi e simpatici, soddisfatti delle loro vite, anche se in perenne bolletta. In attesa si calmi il mare, visita le rovine del maniero di Moy. Joan vuole dare un'occhiata all'interno, ma Torquil si rifiuta di andare per una segreta terribile maledizione di prigionia che incombe su esso, lei lo deride ricordandogli che colpisce solo il clan Laird di Killoran, Torquil  le rivela allora di essere in realtà il vero signore Killoran, che per ristrettezze ha affittato l’isola. Joan  combattuta tra la sua ambizione e la sua crescente attrazione per lui, per “salvarsi “ decide di affrontare il mare in burrasca in un viaggio  pericolosissimo, che mette a rischio la sua vita e quella di Torquil che l’accompagna per proteggerla. Ritornati  e calmatasi la tempesta, Joan  è pronta a partire definitivamente, chiede Torquil  un bacio di separazione, mentre lui si decide ad entrare al castello  e scoprire che  la maledizione dice alla fine che colui ha  osato fare un passo oltre la soglia, è destinato ad una vita in catene : incatenato per sempre ad una donna fino alla fine dei suoi giorni.  Guardando dalla merlatura vede Joan che non è più diretta a sposarsi, ma risolutamente sta marciando verso di lui .  Un film bizzarro e adorabile, del meraviglioso duo Powell e Pressburger, dove c’è di tutto basandosi su una storia semplice e una classe elegantissima: commedia, tempeste, amori impossibili, leggende, natura incontaminata, ironia, personaggi eccentrici, maledizioni, riflessioni, immagini fantastiche come i sogni folli di Joan dove il paesaggio scozzese diventa tutto un tessuto di tartan. Aprire il cuore alla bellezza di quei paesaggi selvaggi coincide con lasciarsi coinvolgere dalle emozioni, sempre un rischio, ma che rende la vita degna di essere vissuta.

domenica 8 aprile 2012

La grande illusione

Prima Guerra Mondiale: due aviatori francesi, il proletario tenente Maréchal e l'aristocratico capitano De Boeldieu,  sono abbattuti con il loro aereo dall'ufficiale tedesco Von Rauffenstein, asso dell'aviazione tedesca. Fatti prigionieri insieme ad altri connazionali preparano una serie di fughe, da un campo di prigionia all’altro fino a che giungono alla fortezza di Wintesborn in Alsazia,  comandata dallo stesso  Von Rauffenstein rimasto invalido in una missione. Qui ritrovano  il soldato Rosenthal, un ricco ebreo francese che avevano conosciuto nel primo periodo di prigionia.  Von Rauffenstein è ingabbiato nel fisico e nel morale anch’egli nel castello, detesta non essere in prima linea, vede in De Boeldieu, un pari grado capace di comprenderlo ed instaura con lui un rapporto privilegiato, il quale lo ricambia per sintonia di status, ma senza mai dimenticare di essere dall’altra parte. E proprio affidandosi a questa “complicità”, riesce a far fuggire Maréchal  e Rosenthal, sacrificando la propria vita, ucciso da un disperato Von Rauffenstein.  La fuga è difficile e i due stanno per cedere, quando trovano rifugio nella casa della giovane vedova di guerra Elsa e sua figlia Lotte, qui vivono finalmente un po’ di pace e tra Marechal e la donna nasce un sentimento, mentre infuria la guerra sperduti in quella casupola loro quattro vivono una serenità quasi impossibile, ma che non gli impedisce ancora di tornare in patria , anche se con la promessa di tornare. Ancora in cammino, le loro impronte nella neve sono avvistate dai soldati tedeschi che tentano di sparare, ma ormai sono due punti neri in una distesa bianca oltre il confine svizzero, e per quel codice d’onore che ogni giorno va spegnendosi tra sangue e odio insensato,  che però balugina ancora nell’animo umano li risparmiano, lasciandoli liberi d’illudersi di  tornare alla loro terra per gli ultimi fuochi di battaglia.  Immenso film, che riesce con una semplicità di stile  e una poesia rara, mai infingarda, a trattare temi impossibili. Quasi diviso in tre parti , una prima con decine di personaggi ( nei campi di prigionia) , con una dozzina nella seconda nella fortezza, con quattro in casa di Elsa. Come se ogni dramma universale, trovasse poi un compimento nella piccola realtà personale . Ci sono leggi sociali che vanno oltre le nazionalità, ma appartengono alla trasversalità delle classi, del denaro, degli obblighi, dell’appartenenza. La Grande illusione è che non ci siano più guerre, che siamo tutti uguali , che le utopie vinceranno, che il particolarismo finirà. Ognuno porta il suo individualismo : Rauffenstein con la sua cura maniacale per gli oggetti della sua stanza, per quel fiore unica bellezza della fortezza,  De Boeldieu, eroico, ma sempre con nobile distacco come i suoi guanti bianchissimi, la natura schietta e popolare di Maréchal  e  la generosità di chi può permetterselo di Rosenthal. Lo sguardo di Renoir non li giudica, li coglie con pudore e simpatia nella loro essenza umana anche nella tragedia globale,  bastano piccoli dialoghi, scene come  la rappresentazione  teatrale in cui un giovane soldato sia vestito da donna, per risvegliare pulsioni congelate dalla situazione di prigioniera con sguardi quasi cannibali, ma anche risvegliare  il senso patriottico con l’intonazione della Marsigliese sfidando gli ufficiali tedeschi anche se ridicolmente travestiti da scena, ma con una dignità commovente; o la struggente malinconia di Rauffenstein  che taglia l’unico fiore rimasto mentre la neve scende, per omaggiare la morte dell’amico De Boeldieu, immagine del gelo interiore con il romanticismo di un mondo condannato al declino,  per sostituirlo vi è quello borghese e popolare dei Rosenthal e dei  Maréchal, più vitale forse, ma non apportatore di nuovo buon senso, perché tutto cambia per non cambiare. Solo l’occhio del regista anche se ne è consapevole non ci fa mancare uno sguardo pietoso e di speranza nell’uomo che può superare classi e nazioni, pregiudizi, perché soltanto il valore etico dell’umanesimo può ancora salvare l’umanità da se stessa.
 
Rosenthal  e  Maréchal: "Bisogna finirla questa guerra, no? Speriamo che sia l'ultima. " - - " Oh, non ti fare illusioni, ritorna alla realtà."    e fuggitivi davanti alla frontiera svizzera  - "Ma sei sicuro che sia la Svizzera laggiù di fronte?" -  -  "Che discorsi... Più che sicuro! "- - " A me sembra tutto uguale, qui." - -  "Eh, che cosa vuoi... Le frontiere non si vedono mica. Sono un'invenzione dell'uomo: la natura se ne fotte!"

domenica 1 aprile 2012

Lawrence Alma-Tadema

Pompei : "Popolare nuovamente quelle strade deserte, ricomporre quelle affascinanti rovine, infondere nuova vita in quei corpi sopravvissuti, attraversare quell'abisso di diciotto secoli e donare una seconda vita alla Città dei Morti!",  così Alma-Tadema iniziò un'ossesione che lo portò a far rivivivere in ogni suo quadro un mondo perduto, sepolto dagli anni. Un mondo diventato mitico luogo ideale, fantasticheria romantica, perchè questo mondo dell'antica romanità ha molto dell'atmosfera  decadente ottocentesca anglossassone. La sua tecnica perfetta, di un estetismo esasperato , vivido nel cromatismo luminosissimo, con l’attenzione ad ogni particolare descrittivo, in cui veritiero appare ogni dettaglio d’arredo, d’architettura, di vestiario, di composizione per raccontare una  società, anche se filtrata dalla sua epoca e da un ideale d’armonia , amore e cultura fantastica.   Sono inciampata in queste immagini per caso, e mi ha colpita questa lucida follia da gentiluomo di fine –secolo che con grandi capacità artistiche ha quasi solamente riprodotto un mondo storico che per  fantasia si fa rifugio ideale in un’altra dimensione quasi da cinematografo.  Quadri-Museo che catturando le atmosfere generate dalle correnti culturali dell’ Ottocento ha  shakerato  Neoclassicismo, Romanticismo, Decadentismo, Liberty,  materializzando  un seducente sogno nostalgico di eterna e raffinata bellezza  tra archeologici decori preziosi,  colorati tripudi floreali, palpabilità  dei sontuosi tessuti delle vesti, sensualità delle  rosee carni, e quel bianco marmo abbacinante contro  il blu del mare immenso che si protrae oltre le vite temporali dei personaggi, oltre il racconto, oltre il tempo stesso.